Soggettiva di una corsa

Inspiro  espiro, dentro fuori, narici dilatate e bocca aperta.

Appoggio l’ avampiede , attento a contrastare la mia naturale (sbagliata) posizione di impatto col terreno, troppo sull’esterno. Il polpaccio spinge, il quadricipite si contrae alzando il ginocchio.

Cerco di mantenere il busto e le spalle in condizione corretta.

Gli occhi sono incollati al terreno, cerco di prevedere gli ostacoli sul sentiero: pietre, radici, buche, è meglio non cadere, scelgo di mettere il piede nel posto migliore.

Appena posso alzo lo sguardo, studiando il proseguo della strada da percorrere o godendomi il paesaggio intorno : selvatico, luminoso e silenzioso. E’ bellissimo essere soli:  “Le mattinate infrasettimanali in Appennino sono da turnisti, disoccupati o pensionati” esclama il mio socio dietro di me quasi leggendomi nel pensiero;  “su questo stesso sentiero nel weekend incontri un sacco di gente”.

La metà del nostro anello (che oggi coincide con la vetta) è ancora distante e il sentiero impenna decisamente: è il momento di cambiare marcia, non riesco più a correre, allaccio le mani dietro la schiena e cammino: mi concentro sui battiti: cerco di non farli alzare troppo e di gestire il mio fiatone. Lunghi minuti di silenzio, solo il rumore del mio respiro e delle scarpe sul sentiero o sulla roccia e tutto intorno il fruscio del vento e il cinguettio degli uccellini. Due pernici spaventate salgono in volo a pochi metri da noi.

Finito il giro, in prossimità della macchina mi sento svuotato,asciutto, stanchissimo e felice.

Correre in montagna è una forma di meditazione. Il cervello ti entra in loop strano e questa sensazione può dare dipendenza.

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