Pyramide du Tacul

Un breve racconto della gita di Luglio sulla Pyramide du Tacul, via Ottoz Grivel.

La prima volta sul Monte Bianco. Ancora la pelle odora del sole che il pomeriggio prima scaldava il litorale ligure. Courmayeur che si allontana al ritmo del carillon futuristico qual è la funivia che sale al rifugio Torino.

La proposta è stata molto superiore alle aspettative montanare che avevo per il fine settimana, da una parte il cuore fibrilla, teme,  ma la solennità di un ghiacciaio è una delle poche autorità che riconosco.  Prima funivia del sabato, la testa è ancora sul cuscino e non riesce ad immaginare la Pyramide du Tacul, a fianco i miei due compagni di gita di cui so che mi posso fidare.

L’aria è frizzante, fresca, il Dente del Gigante svetta nel cielo sgombro da nubi. L’avvicinamento dura poco più di un’ora, la traccia che porta sotto al Mont Blanc du Tacul è ben individuabile e oltrepassa crepacci ancora quasi chiusi, ma il ghiaccio non fa il classico rumore gemente sotto le lame dei ramponi. Ad Ovest spicca la vetta del Bianco, scendiamo di circa 200m fino a raggiungere quelli che vengono chiamati i satelliti: guglie rocciose, rossastre, che si innalzano al cospetto della madre più alta, verso Nord. L’attacco della via si nota con facilità, ma, per raggiungerlo, bisogna oltrepassare un ponte di neve poco rassicurante. Davanti a noi partono due cordate, il primo tiro è un III grado e, sulla sosta, decidiamo di far passare le tre cordate che ci stanno alle calcagna: sono solamente le 9. Dal secondo tiro inizio a percepire la fiducia che posso dare al granito: P. sembra camminare verticalmente senza alcuna fatica, apre la via solo con l’utilizzo dei polpastrelli. Cerco di imitarlo anche se non è così implicito: scopro quanto una mano possa far leva sul resto del corpo se inclinata leggermente dentro una fessura. Mi diverto. Sulla sosta alla fine del quarto tiro il sole non scalda più, si alza il vento e in cielo compaiono nubi veloci;  un rumore cupo preannuncia lo scarico di neve dalla cima di un canale a qualche centinaia di metri da noi. Deglutisco, tutto è sotto controllo. Parte D.  che, grazie alla sua astuzia riesce ad utilizzare, con maestria, parte dei ferri che si porta sull’imbrago. Nei tratti più semplici anche un piccolo sforzo accelera la frequenza respiratoria, siamo attorno ai 3400 m, il peso dello zaino aumenta la fatica. Poi il passaggio chiave della via, almeno così dicono: un tettuccio un po’ spiovente dato come IV grado, deve aver avuto un passato da stambecco quello che ha scritto la relazione. Ci troviamo almeno 100m dall’inizio, mi volto e vedo la distesa lattea del ghiacciaio del Gigante, la prima goccia azzera la felicità, il vento in sosta sferza sulle poche parti rimaste scoperte dagli strati d’indumenti, i piedi cominciano a raffreddarsi e la mandibola acquista un moto proprio. Pioggia. Dopo pochi minuti nevischio. Il 6°e il 7° tiro diventano una pista da pattinaggio, di lato ci sorpassano le prime due cordate in calata seguite dagli altri che ci mandano occhiate preoccupate e ci esortano ad abbandonare la parete. Sembra trascorso un attimo, ma son già le due del pomeriggio. Il cielo è plumbeo sopra di noi e all’orizzonte. Piove, maledizione. P. in sosta alla fine del 7° tiro sento che vorrebbe continuare, sono completamente zuppa, le scarpette sembrano suolate col burro, utilizzo ginocchia e gomiti, mi appenderei con i denti fossero poco più sporgenti.  Non riesco a salire, D. mi costruisce un autobloccante per farmi almeno arrivare ad una piccola e scivolosa presa.

Avvolti nelle giacche al centro del temporale decidiamo di calzare gli scarponi e costruire la prima doppia, a fatica s’intravede l’obiettivo che la mattina svettava chiaro sopra di noi. D. inizia a calarsi dopo almeno 30 minuti, sento che nell’attesa devo trovare qualcosa da fare, anche i muscoli delle cosce brividano, solo la discesa mi scalda. Prima calata andata, montiamo la seconda, ma l’attesa diventa più lunga del previsto, calandomi capisco, proprio sopra la testa di D., che il cordone in sosta è marcio: servono dei chiodi e delle microfessure di roccia buona. Il tempo scorre, si vede nuovamente l’attacco della via a 70m sotto, le cordate prima di noi son appena arrivate sul ghiacciaio e ci gridano se abbiamo bisogno di soccorsi. Sono le 7 di sera. P. arriva in sosta, ma le corde decidono di bloccarsi su qualche masso. Non riesco bene ad articolare parole, tremo e cerco di non far caso al rumore dei denti. Spontaneamente ci stringiamo, corpo a corpo, manovriamo su e giù prima l’una poi l’altra corda. C’è già chi dice di risalirle, per me follia. Dopo vari imprechi scendono. Alle 20 raggiungiamo il ghiacciaio, non ho energie per comunicare la felicità e la profonda gratitudine che provo per i miei due compagni se non attraverso sguardi e sorrisi. Penso a quante emozioni in così pochi metri hanno scaldato il mio corpo, a come definire il legame che si forma dopo che per ore un lungo cordone ombelicale, manovrato da sei mani, mi ha sorretto lungo pareti verticali e giochi di vuoto e spigoli. Penso alla fiducia e alla complicità che si generano quasi spontaneamente. Intanto attraversiamo il ghiacciaio, il silenzio, le luci del crepuscolo. Accendiamo le frontali e dopo poco vediamo in lontananza il Torino.

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